Daniel Pennac, “Diario di un corpo”
“Ai giardinetti Bruno e un bambino della sua età obbediscono al rituale immemorabile del confronto dei bicipiti. (…) Passiamo la vita a confrontare i nostri corpi. Ma, una volta usciti dall’infanzia, in maniera furtiva, quasi vergognosa. A quindici anni, sulla spiaggia, studiavo i bicipiti e gli addominali dei ragazzi della mia età. A diciotto o venti, il gonfiore sotto il costume. A trenta, a quaranta, gli uomini paragonano i capelli (guai ai calvi!). A cinquant’anni, la pancia (non metterla su). A sessanta, i denti (non perderli). E adesso, in queste adunate di vecchi avvoltoi che sono le nostre autorità tutorie, la schiena, i passi, il modo di asciugarsi la bocca, di alzarsi, di infilarsi il cappotto, l’età, insomma, semplicemente l’età. Tizio dimostra molti più anni di me, non trova?”
“Il corpo è un’invenzione della vostra generazione, Lison. Almeno per l’uso che se ne fa e per lo spettacolo che ne viene dato. Ma sui rapporti che la mente stabilisce con esso in quanto scatola delle sorprese e distributore di deiezioni, oggi il silenzio è altrettanto fitto che ai miei tempi. (…) quanto ai medici, oggi il corpo non lo toccano più. (…) Più lo si analizza, questo corpo moderno, più lo si esibisce, meno esiste. Annullato, in maniera inversamente proporzionale alla sua esposizione.”
“Quella che se ne sta in piedi davanti a me nel vano della porta è (...) la Mia Donna! Aggettivo possessivo! (…) E nell’istante in cui il fulmine ci colpisce è tutta la nostra cultura che il flusso delle ghiandole ci fa riaffiorare al cuore, tutte le canzonette d’amore da due soldi e tutte le opere liriche più altolocate, il primo sguardo del Montecchi sulla Capuleti e quello del Némours su Madame de Clèves, e le vergini e le Veneri e le Eve dei Cranach e dei Botticelli, tutta la spaventosa quantità di amore che riaffiora dalla strada e dai musei, dai rotocalchi e dai romanzi, dalle foto pubblicitarie e dai testi sacri, Cantico dei cantici dei cantici, tutta la somma dei desideri accumulati dalla nostra giovinezza, celebrati dalle nostre seghe ardenti, tutti quei colpi sparati a salve da adolescenti nelle immagini e nelle parole, tutte le mire della nostra anima appassionata, ecco cosa ci gonfia il cuore, ci incendia la mente! Ah! L’abbagliamento dell’amore! Che ti rende subito chiaroveggente! E impalato come un cretino davanti alla porta aperta.”
“L’operazione è così lunga e dolorosa che devo trattenermi per non mollare un cazzotto in faccia al medico. (…) In fondo, controllare il dolore significa accettare il reale per quello che è: ricco di metafore pittoresche. Per quanto tempo le metafore possono fingere da diversivo? Il problema è tutto qui.”
“Pascoliamo nel praticello del nostro trantran e ci immobilizziamo come cerbiatti senza via di scampo appena il corpo parla. Quando l’allarme è passato, ce ne torniamo al pascolo con arie da predatori.”
“Signore e signori, moriamo perché abbiamo un corpo, ed è ogni volta l’estinzione di una cultura.”
“E’ difficile capire cosa ci portano via, morendo, quelli che abbiamo amato. (…) Mentre i corpi sono vivi, i nostri morti tessono per noi i ricordi, ma questi ricordi non mi bastavano: mi mancavano i corpi. (…) La materialità del loro corpo, questa alterità assoluta, ecco cosa avevo perduto! Quei corpi non popolavano più il mio paesaggio. Quanto mi è mancata, improvvisamente, la loro presenza fisica! E come mi sono mancato in loro assenza! Mi mancava vederli, sentirne l’odore, udirli, qui, ora! (…) io che quand’erano vivi li avevo toccati così poco! Io considerato così poco incline alle carezze, così poco fisico! Adesso reclamavo il loro corpo! Seguivano attacchi di follia bonaria in cui diventavo il loro fantasma (…) ero ridotto a queste brevi crisi di possessione: diventare per un lampo Grégoire che zuccherava il caffè, Tijo che rideva, Violette che vacillava sui sassi. Ma come avrei preferito vederlo, quel gesto! E sentirla, quella risata! E spingere ancora indietro il seggiolino di Violette! Dio come mi mancava quella compagnia e come ho capito la parola: compagnia!”
“Quando hai tenuto per tutta la vita un diario del corpo, un’agonia non puoi certo negartela.”
“Siamo fino alla fine figli del nostro corpo. Figli disorientati.”
(Daniel Pennac, “Diario di un corpo”)