CHIAMAMI COL TUO NOME _ IO LO AMO E PERCHÉ. (marzo 2017)
CHIAMAMI COL TUO NOME _ IO LO AMO E PERCHÉ.
“I felt all blushed with fever / embarrassed by the crowd /
like he had found my letters / and read each one out loud /
I prayed that he would finish / but he just kept right on /
strumming my pain with his fingers / singing my life with is words /
killing me softly with his song, with his song”
(“Killing me softly”, Roberta Flack)
“Chiamami col tuo nome”, c’è chi lo ama e chi lo odia. Io lo amo. Perché? Aspettate la fine del film. No, anche se quelli che scorrono sullo schermo, accanto al lunghissimo primo piano di Elio, sono i titoli di coda e qualcuno, tratto in inganno, si alza per andarsene, quella che avete davanti agli occhi è la scena finale: un piccolo capolavoro di interpretazione.
Non basta? Forse no. Allora, piuttosto che ribattere punto per punto alle ragioni “contro” di Elena Conenna – che, a mio avviso, deve aver visto un altro film, forse la versione tarocca, non so, o forse andava di fretta. Capita! - preferisco molto più banalmente scrivere del perché ritengo sia un’opera preziosa, soprattutto in questi anni così superficiali, così pieni di youtuber, efficienza e possibilità ma così aridi e privi di bellezza e poesia.
“Nessuno mette Baby in un angolo”. Chiara Gamberale lo citò qualche anno fa, su Vanity Fair, come espediente narrativo per raccontare qualcosa di importante in modo giovanile, un po’ stereotipato forse, ma non banale. Mmm… Allora mi chiedo, com’è che ci piace citare “Dirty dancing” e poi facciamo le pulci a Guadagnino? Anche perché, sinceramente, trovo meno stereotipi nel suo film che negli occhi con cui molti lo guardano.
Personalmente ritengo che “Chiamami col tuo nome” – un film a basso budget che arriva agli Oscar sulla spinta del suo straordinario e meritatissimo successo – sia un’opera toccata dalla Grazia, dalla luce della bellezza e della leggerezza. Raramente ho visto un’interpretazione così sorprendente, esaltante e commovente come quella del giovane Timothée Chamalet nel ruolo di Elio, tanto che bisogna guardare il film almeno una seconda volta (come io ho fatto) per capire quanto sia vibrante e sottile quella del comprimario Armie Hammer il cui Oliver, per necessità del racconto, viene soprattutto guardato come idolo dell’immaginario erotico e sentimentale di Elio, mentre la sua interpretazione - più intima, sottile, quasi in punta di piedi – ci restituisce la verità del ragazzo dietro l’immagine della “mùvi star”, come lo chiama la madre di Elio (la bravissima Amira Casàr).
Difficile scrivere del film senza tirare in ballo il meraviglioso romanzo di Aciman di cui l’opera di Guadagnino è una toccante traduzione (con i suoi inevitabili “tradimenti”), così come è difficile parlare di entrambi senza attingere al mio vissuto personale, intimo senza il quale, forse, ne l’uno né l’altro mi toccherebbero così nel profondo.
Attenzione, però: non sono cresciuto in una ricca famiglia ebrea, da genitori illuminati e colti, non ho passato le mie estati in una antica magione della Riviera ligure dove il mare lussureggiante sferza la scogliera (nel libro) o nella campagna lombarda riarsa nella calura del mezzogiorno (nel film), né ho vissuto una fugace e rovente passione con uno statuario adone d’oltreoceano, noooo … semplicemente, ho avuto 17 anni anch’io. Come tutti, sono stato giovane.
Indipendentemente dalle preferenze sessuali di ciascuno (la sola idea di scrivere “inclinazioni” mi fa venire l’orticaria), siamo stati tutti Elio (alcuni, addirittura, lo sono proprio adesso): giovani, ambivalentemente appassionati e insicuri, pieni di vita e impauriti, perennemente eccitati (non a caso nel film si rimarca spesso come Elio ce l’abbia sempre “duro” – che tenerezza, e che invidia!), e in vorticoso equilibrio fra la nostra fame d’amore (e di fisicità) e la fottuta paura che si realizzi la possibilità di saziarla, quella fame, tra pensieri peccaminosi e sensi di colpa, tra la “vita sognata” nel nostro mondo segreto (“quanti libri che abbiamo letto, lì!) e la “vita vera” nel mondo là fuori.
Non a caso, la storia tra Elio e Oliver – e quindi la vita vera - comincia proprio con la confessione/dichiarazione di Elio a Oliver: “Se solo sapessi quanto poco so delle cose che contano davvero”.
La giovinezza, l’entusiasmo, la bellezza, l’arte, la scoperta dell’amore e dell’altro, la liberazione del corpo e la sconcertante rivelazione di sé che ne consegue … di questo si parla.
Meravigliosamente.
Secondo molti, i protagonisti sono tutti troppo ricchi, tutti troppo gentili, tutti troppo colti, tanto da risultare o poco plausibili o stucchevoli. Premesso che io, nella mia vita, gente così l’ho conosciuta e frequentata e posso dirvi che esiste proprio come esistono i ricchi illetterati e arroganti (bisogna farsene una ragione), val la pena segnalare che qui è un espediente narrativo decisamente importante.
Già nel libro Aciman dissemina fra le pagine rimandi pregni di bellezza e di citazioni artistico-letterarie, seguendo un filo sottile che lega tra loro gli amanti impossibili (Paolo e Francesca, la principessa di Clèves e il duca di Némours, Armance e Octave). Allo stesso modo – sempre in maniera efficace e funzionale alla storia – Guadagnino (classe 1971), per associazione poetica o tributo segnico ai suoi riferimenti artistici, cita e omaggia numerosi artisti e Maestri che sono stati – non dimentichiamolo! – parte formativa della sua giovinezza raccontando di mondi nascosti dentro altri mondi, tra gli altri Giorgio Bassani e James Ivory, grande regista nonché autore della sceneggiatura.
E qui, un piccolo gioco di specchi e rimandi: nei miei 17 anni, nel mio spazio segreto, mi innamorai dei romanzi di E. M. Forster - ah, le notti rubate al sonno per arrivare all’ultima pagina! - e inevitabilmente, quelli erano proprio gli anni (‘80, appunto), delle trasposizioni cinematografiche firmate James Ivory. Fra quelle pagine e sullo schermo, gli stessi temi: giovinezza, bellezza, istinto e inesperienza, l’arte e la classicità (celebrate nell’Italia solo apparentemente “da cartolina” vista con gli occhi degli inglesi all’estero) e il lacerante conflitto tra apollineo e dionisiaco, tra “ciò che si vorrebbe fare e ciò che si deve”.
Come Elio, anche la timida e riservata Lucy Honeychurch di “Camera con vista” suona il pianoforte con energia e passione, tanto da far tremare la madre all’idea di un’eventuale “esecuzione a quattro mani”. E la Firenze ottocentesca di Lucy e dell’appassionato George rivive in diversi frame del film di Guadagnino, dal primo bacio in mezzo ai campi fino alla Bergamo vecchia dove Elio e Oliver, ebbri e prossimi alla separazione, ballano e si amano mentre gli Psychedelic Furs risuonano nella notte da un’autoradio che sembra uscita dalle pagine del primissimo Tondelli (quello di “Altri libertini” tanto per capirci, era il 1980) fino al balcone della Pensione (Bertolini? Chissà…), dove uno struggente Oliver guarda sorgere il sole del giorno che lo riporterà in America, alla vita che lo aspetta.
Non c’è nulla di compiaciuto o di superfluo nell’economia del racconto. Non c’è nulla di urlato eppure tutto, tutto, anche i silenzi e le frasi appena sussurrate, risuona chiaramente.
A differenza di quanto fa Aciman nel libro, Guadagnino non calca la mano sulla forza dirompente dell’esperienza erotica tra Elio ed Oliver, preferisce renderla palese attraverso una serie di dettagli: gli sguardi rubati e quelli complici, le mani che cercano continuamente quelle dell’altro, i corpi che si toccano, si scontrano, si prendono e si sfiorano, si sfuggono e si chiamano, tutto pur di fondersi insieme, ed è tanto e tale quello che i due straordinari protagonisti riescono a raccontare attraverso l’appassionato affiatamento della loro interpretazione fisica che si potrebbe tranquillamente “capire tutto quel che c’è tra quei due” anche senza volume.
Ed è quello che fanno i genitori di Elio. Osservano il figlio - con occhi innamorati e mente aperta, certo! -, capiscono perfettamente cosa sta succedendo e, senza perderlo di vista e non senza un po’ d’apprensione, lasciano che Elio viva la sua “storia importante”. Come dovrebbe fare un genitore, no?
E se, come ho scritto, anch’io ho avuto 17 anni beh… anch’io oggi sono padre e, in men che non si dica, anche mio figlio avrà 17 anni. Non posso più guardare il mondo con altri occhi… chi siamo stati ci ha cambiati per sempre ma chi siamo diventati cambia per sempre il nostro sguardo su quello che ci circonda. Il confronto tra padre (Michael Stuhlbarg) e figlio, già fra le pagine migliori del libro, è qui restituito con una verità, una delicatezza, una maestria interpretativa da standing ovation. Padre e figlio sul divano, l’uno accanto all’altro, il padre che soppesa le parole e i silenzi, il figlio che ascolta e, a piccoli scatti, quasi impercettibili, annulla la distanza fra loro – padre e figlio che, per tutto il tempo, si parlano con gli occhi umidi ...che poi, come diceva Tondelli, è “l’unico modo reale che le persone hanno di comunicare”. E, nel buio del cinema, mi commuovo e piango perché il film mi restituisce intero a me stesso, guardo lo schermo e sono il figlio 44enne che ha da poco perduto suo padre ma sono anche il figlio 17enne che sogna intensamente quella stessa, impossibile intimità con quell’uomo che un giorno lo renderà orfano, e ancora, sono il padre che, una sera d’inverno, stringe fra le braccia il proprio bambino che piange, disperato, perché qualcosa là fuori, nel mondo là fuori, lo fa sentire “fuori posto”.
E a chi obbietta che è tutto “troppo incredibile” ribatto che, Dio santo, si va al cinema o a teatro o si legge un libro, insomma ci si rivolge “all’arte che finge la vita” proprio per vedere la vita come potrebbe e forse dovrebbe essere e non come è o è stata per noi, si cerca la catarsi, la bellezza, la purificazione attraverso la poesia del racconto che trascende la prosaicità degli avvenimenti! Diversamente tutto perde di senso, Maurice diventa un povero meschinetto, lady Chatterly e Madame Bovary due poco di buono e Romeo e Giulietta due ragazzini esaltati.
La bellezza, il talento, la poesia non ti insegnano la vita né ti mettono al riparo dalle sue delusioni ma ti aiutano a viverla, ti offrono una strada da percorrere per incontrare i tuoi simili e ti insegnano una lingua per riconoscerli. Ma soprattutto l’arte, quella vera, quella degna di tale nome, ci mette di fronte al nostro Desiderio: ci fa riconoscere la vita che vogliamo e ci spinge a realizzarla. O a quella che volevamo e a piangerla per sempre. Dipende. Non a caso, un oggetto feticcio che compare spesso nel film, è un orologio, quello che Elio non sa mai dove mettere e che gli ricorda continuamente - mentre suona, parla con gli amici, trascrive musica, si masturba o fuma una sigaretta – che ha un appuntamento con la vita adulta, la sua, un appuntamento che lo cambierà per sempre e che, fino all’ultimo, può comunque scegliere di disertare e restare per sempre in quel limbo dorato che è la sua giovinezza.
E qua torniamo a quel che ci raduna, come direbbe la Madre superiora: la Giovinezza, che qui è metaforicamente resa nella magione dei Perlman, vale a dire un’oasi felice dove Elio vive coltivando le arti, protetto dall’amore dei genitori e lontano dai clamori e dai pericoli del mondo al di là del bosco ceduo. Un luogo incantato dove la giovinezza risplende e vive la sua fulgida estate.
Se la mente di alcuni subito corre alla casa del Mulino bianco, la mia si ritrova sui libri di scuola, negli anni ’80 (aridàje!), dove si parla di locus amoenus per descrivere la scelta di dieci giovani che abbandonano Firenze, dove infuria la peste, per rifugiarsi nella natura e, guarda te, raccontarsi delle storie (dieci novelle al giorno per dieci giorni ) … e non è, forse, un locus amoenus anche la villa dei Perlman, un luogo immerso nella natura, tra piante e alberi, situato nelle vicinanze di una fonte o di un ruscello, ricco d’ombra e molto simile al paradiso Terrestre? Non a caso, nel libro, Oliver ribattezza “paradiso” il bordo piastrellato della piscina dove ama stendersi per lavorare ed Elio, nel suo fantasticare di tumultuosi scontri erotici con lui, contemplandolo ripensa spesso alle metamorfosi di Ovidio.
Eppure la vita, il mondo fuori con i suoi rumori, irrompe continuamente nel racconto, perché l’amore, qualsiasi amore, vive fuori dal tempo ma si consuma nel tempo: i sandali di Patroclo, il Baedeker di Lucy Honeychurch, le espadrillas e la camicia di Oliver … la storia, qualsiasi storia, è popolata di oggetti che raccontano proprio di quel momento lì e di cosa stava succedendo nel mondo – la radiolina gracchiante, il telefono a disco, l’immancabile walkman con le cuffiette ad arco, l’Olivetti lettera 35 –, “La vita è quella cosa che accade mentre, tutt’attorno, accade tutto il resto”.
E sempre negli anni 80, il concetto di locus amoenus mi ritornò proprio, grazie a un altro film, “Milou a maggio”, dove Louis Malle riunisce in una splendida villa nella campagna francese diverse generazioni di una stessa famiglia mentre a Parigi infuriano gli eventi del maggio (appunto) del ’68. – nulla di quel luogo richiamerebbe in me la casa del mulino bianco così come Oliver mi ricorda l’Adone del Canova e mai Ken di Barbie!!! – . Sullo sfondo del film di Louis Malle, la Storia giunge attraverso i racconti di chi arriva da fuori e dalle voci dei radiogiornali che parlano di barricate, proteste e scontri di piazza. Allo stesso modo l’estate dell’83 di Guadagnino si palesa dalle retrovie, quasi in silenzio: alle spalle di Oliver, dopo la confessione di Elio, sui manifesti elettorali del 26 e 27 giugno; quello stesso giorno, il giorno del loro primo bacio, a tavola si parla del pentapartito e della morte di Bunuel, il 29 luglio; in controcanto alla “prima volta” di Elio e Oliver, le donne di servizio in cucina commentano la nomina di Craxi a presidente del Consiglio, lo stesso di cui fa ridere a crepapelle il pubblico un giovane e smagliante Beppe Grillo dalla tv in bianco e nero che la signora Perlman guarda in salotto.
… E poi c’è la musica, aaahh, la musica! In primo piano quella che Elio suona, studia e trascrive –un’occupazione costante e quasi ossessiva. La musica è per lui un’altra lingua. Suona per sé e, spesso, per intrattenere gli ospiti di casa. Ed è proprio suonando che Elio spinge Oliver a manifestare apertamente, per la prima volta, il suo interesse per lui. E - complici una serie di variazioni sullo stesso brano – ne segue una prima, divertita “schermaglia amorosa” tra i due. Ed è una musica senza tempo.
Ma quasi in secondo piano, solo apparentemente rumore di fondo, c’è la “musica che gira intorno / quella che non ha futuro” (per dirla con Fossati), quella che per sempre riporterà Elio (e molti di noi con lui) a ripensare a chi era nell’estate del 1983. Durante la “scena della pesca”, alla radio Battiato canta “Radio Varsavia”. E così come “i giovani che si amano non ci sono per nessuno”, in quel momento, in quella stanza, Elio è totalmente dentro il suo desiderio erotico, lontanissimo dalla repressione polacca; c’è la musica del jukebox nel bar del paese, dove spesso risuonano sempre le stesse canzoni, tanto che è sempre la voce di Loredana Berté (“J’adore Venise”) ad accoglierli la prima volta che vi entra con Oliver, e a rimarcare la sua assenza quando Elio, di ritorno dalla stazione, ritrova Marzia fuori dal locale; c’è la musica della balera all’aperto dove i giovani villeggianti vanno a ballare nelle sere d’estate - un posto che sembra il “lato b” di una vera pista da ballo – ed è lì che uno straordinario Elio/ Timothée Chamalet guarda il ragazzo dei suoi sogni, avvinghiato alla sua amica Chiara, ballare sulle note di “lady, lady, lady”, un lento che è il “lato b” del successo di quell’anno, “Flashdance” – non ci sono scaldamuscoli nel film, solo perché è estate, sennò…
Inoltre, nel 1983 è tutta un’altra musica rispetto al 1987, anno in cui Aciman ambienta la storia nel libro, perché non vi riecheggia lo spettro dell’Aids, il timore quasi irrazionale del quale si era diffuso in tutto il mondo solo a metà anni 80. Se l’argomento viene toccato e risolto con apparente leggerezza sulla carta, nel racconto cinematografico si sceglie l’espediente temporale per aggirare l’ostacolo, tenuto conto che in entrambe le versioni i due giovani si trovano comunque a dover affrontare diverse paure e tabù (compito ben più difficile per Oliver che per Elio) per concedersi di vivere quello che – come lo definirà anni dopo lo stesso Elio nel libro –“quasi non fu mai che ancora ci tenta”.
Un’ultima riflessione ancora. Nel film, come accadeva comunemente negli anni 80, fumano tutti, proprio come fumavano gli eroi dei film e i protagonisti delle canzonette (si pensi a “cigarettes and coffee” di Scialpi o alla “tua sigaretta brilla rossa” di Claudio Baglioni). Per i ragazzi prossimi alla maturità, la sigaretta era ancora un segno distintivo di emancipazione. Fumano Elio e Marzia, fumano i genitori di Elio – la madre, soprattutto –, fumano i commensali e gli ospiti di casa Perlman. E ognuno fuma come sa, a modo suo, perché ogni fumatore è diverso dagli altri e di conseguenza, a volte anche in modi impercettibili, fuma in modo diverso dagli altri, anche quando sembra che quella sigaretta non se la sappia godere. Ho fumato per 19 anni e sono ancora circondato da fumatori. Lo so. Magari fuma anche se non se la gode. Capita spesso.
“Oggi, il dolore, la curiosità, l’eccitazione per una persona nuova, la promessa di una gioia immensa a portata di mano, (…) l’urgenza (…) tutto questo iniziò l’estate in cui Oliver venne a casa nostra. E’ inciso in ogni canzone che spopolava allora, in ogni romanzo che ho letto durante e dopo il suo soggiorno, in ogni cosa, (…) odori e suoni, in mezzo ai quali ero cresciuto (…) ma che poi d’un tratto riscoprivo eccitanti, arricchiti di una sfumatura particolare, per sempre colorata da ciò che accadde quell’estate.” (“Chiamami col tuo nome”, A. Aciman,)
Amo “Chiamami col tuo nome” perché mi restituisce intero a me stesso e al mio desiderio, perché riconcilia giovinezza ed età adulta, perché vi ritrovo tutti gli elementi, gli slanci, lo sguardo che - da sempre e sempre più - guidano la mia vita e le mie scelte.
Richiamando più estesamente le parole di Montaigne che papà Perlman cita durante il suo scambio col figlio … “Si on me presse de dire pourquoi je l'aimais, je sens que cela ne se peut exprimer qu'en répondant: « Parce que c'était lui; parce que c'était moi. »(se mi si chiede di spiegare brevemente perché l’amassi, non posso che rispondere: “perché lui era lui; perché io ero io”) ”. http://www.lauraguglielmi.it/il-blog-non-e-solo-mio/chiamami-col-tuo-nome-luca-guadagnino/
* ho scritto queste pagine, poi finite in un'edizione di molto ridotta sul sito di Laura Guglielmi, a casa di Marta e Claudio a Pietra Ligure, sopra un tetto allagato di luce, in una solitudine quasi irreale, bevendo troppo, cercando di elaborare il lutto per la perdita di papà e al contempo annientando i miei pensieri. era a cavallo dell'8 marzo. cercavo la solitudine e al contempo la fuggivo.
" Prima che me ne accorgessi era sgusciato verso di me. Mi fissò dritto in faccia, poi mi toccò il labbro inferiore con un dito e cominciò a farlo scorrere a destra e a sinistra e a destra e a sinistra, e poi ancora è ancora. Poi portò la bocca sulla mia, un bacio caldo conciliatore, come per dire "ti vengo incontro a metà strada ma non di più" finché non si rese conto di quanto il mio bacio fosse affamato "